Maboneng

Poco più di due anni fa i nostri documenti per l’imminente trasferimento in Sud Africa erano pronti. 

Non molto tempo prima, sapendo che la nostra destinazione sarebbe stata Johannesburg, avevo iniziato a raccogliere informazioni qua e là su internet. Già avevo avuto qualche avvisaglia che la sua reputazione non fosse delle migliori ma il risultato che ottenni fu molto più che sconfortante. Tra le tante storie di criminalità diffusa c’era però qualche voce fuori dal coro che raccontava della città in termini diversi, mai edulcorati ma realistici. Tra le tante cose che avevano attirato la mia attenzione era la capacità di questa città, rimarcata in più articoli, a sfidare la “comfort zone” di chiunque ci capiti anche per poche ore. 

Perché è innegabile che questa città, che tu ci rimanga poche ore o che decida di viverci, ti pone molte più domande di quante risposte potrai mai trovare.Oppure, detto in altri termini, ti costringe a cambiare continuamente le lenti attraverso cui leggi la realtà che ti circonda. Oggi come ieri la città è segnata da profonde diseguaglianze sociali. Ville e baracche, auto di lusso e poveri disperati ai semafori, uffici nuovi scintillanti ed edifici abbandonati o occupati illegalmente, riempiono gli occhi di chi la vive.

Nonostante l’innegabile difficoltà di viverci, per molti che emigrano da altri paesi dell’Africa e dell’Asia, rimane il luogo in cui ci si costruisce un futuro. Il risultato è un melting pot caotico, colorato e non sempre felice.

Tra i numerosi quartieri che rappresentano un po’ l’essenza di questa città sempre in bilico tra decadenza e riconversione c’è Maboneng. Sviluppato da alcuni imprenditori con l’intenzione di riqualificare una delle zone industriali del Central Business District (CBD) di Johannesburg, il progetto si è trasformato e si è evoluto nel corso degli anni dando vita a uno dei quartieri più animati ed interessanti della città. Oggi si possono trovare negozi di abbigliamento, ristoranti etnici e non, un food market domenicale, gallerie d’arte, un ostello, un hotel, il Museo di African Design, street art, un cinema indipendente, e numerosi appartamenti.

Qualche domenica fa visitando il quartiere, fra le tante proposte, abbiamo optato per un pranzo etiope. La nostra scelta è caduta su un piatto di Mahberawi: ovvero un mix di verdura e carne cucinato con diversi ingredienti tra cui: aglio, pepe, timo, zenzero, fieno greco, koseret e cardamomo. 

Il risultato? Un insieme delizioso che va gustato insieme al tipico pane etiope, injera, che fa le veci di un enorme cucchiaio per raccogliere la pietanza dal piatto. A chiudere il pranzo non ci siamo fatti mancare il tradizionale caffè etiope: nero ed intenso.

In questo post ci tenevo ad aggiungervi qualche dettaglio sul cibo per due ragioni: primo perché in Africa raramente si spreca o avanza (doggy bag obbligatorio al ristorante se non finisci). Secondo, saremo pure a 8000 km di distanza, ma sappiamo quanto fermento ci sia in Italia per Expo.

Ammetto che le polemiche, gli scandali, i soldi mal spesi facciano sì che chiunque, anche motivato da buone intenzioni sia legittimato a boicottarlo e fargli pessima pubblicità. Però, perché mancare la possibilità di imparare qualcosa di nuovo? Di vedere, di sentire, di assaggiare qualcosa che non appartiene alla nostra cultura? E magari provare ad aprire gli orizzonti e la visuale del nostro piccolo mondo?

Quando, dico quando, avremo mai la possibilità di vedere, ad esempio, l’Angola così da vicino? Ecco io questa occasione non me la farei scappare.

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